La Casa che Amo
Biennale Architettura 2026 Gens
Cristina Fiorenza
Autobiografia di una casa
Tutto è iniziato con una tenda. Un telo di cotone a fiori, quattro corde, niente di più.Ero un riparo leggero, temporaneo. Il vento mi attraversava, ma potevo essere smontata e portata altrove.Mia madre mi aveva creata così: mobile e leggera.
Col tempo ho capito che le tende nascono spesso da necessità. A volte da case distrutte, da guerre o da migrazioni. I viandanti che mi abitavano restavano poco, poi ripartivano. A volte lasciavano qualcosa: un oggetto, un segno. Senza di loro, ero solo un telo al vento.
Poi ho cominciato a cambiare. Sono cresciuta: pilastri, travi, finestre. Stavo per diventare una casa vera. Ma mi piaceva il bosco attorno, il fiume, alberi piante cielo.Un tetto avrebbe coperto tutto quello. Nessuno voleva abitare in una casa così aperta, così fragile. Dopo 5 anni sono crollata.
Mi hanno ricostruita in città. Ero una casa tra tante altre.Gente di ogni tipo è passata: una donna con suo figlio, una coppia giovane, una famiglia. Ognuno portava oggetti, storie.Quando se ne andavano, spesso dimenticavano qualcosa. O forse lo lasciavano apposta.
Una ragazza cinese che lavorava in una fabbrica di pinocchi a Chongqing, seduta circondata da centinaia di pupazzi identici,quando è partita, ha lasciato un sacchetto di quelli.Per me erano solo giocattoli, ma per lei erano memoria.
Avevo grandi vetrate. Come quelle dell'immagine dove le pareti sono oblique e il mondo esterno irrompe dentro: grattacieli capovolti si specchiano sul pavimento, mentre una donna porta cuciti sui vestiti i propri ricordi. Gli uccelli entravano, a volte si facevano male. La gente metteva piante dappertutto, forse perché la città era grigia.
Poi, quando le case sono diventate poche, sono tornata ad essere molte cose: case sospese su pilastri fragili, come nell'immagine dove abitazioni precarie si ergono su esili supporti mentre una donna osserva, consapevole della provvisorietà di ogni rifugio.
Capanne, container, persino un'astronave quando ho immaginato di scappare verso un altro pianeta. Sono stata solida, ferma e mobile. Ho avuto anche case più piccole con me, di ceramica.
Fragili e dense allo stesso tempo, non erano soltanto oggetti decorativi, ma modelli di architetture possibili, ridotte alla loro essenza.Alcune sembravano quasi organismi, fluide, capaci di raccontare un’altra vita dentro la casa.
Tra questi, uno portava il nome di I tetti di Parigi.
Non era immediatamente classificabile: lampada, scultura, architettura in miniatura, creatura organica. Una superficie che sembrava viva, popolata da forme che ricordano insetti o piante, attraversata da aperture che si accendono di una luce blu interna. Non rappresentava la città, ma la condensava in un oggetto capace di produrre estraniamento. Un attivatore di relazioni dentro la casa, non un semplice complemento.
Queste ceramiche, come la scultura If I Was a Clay River, non sono semplici pezzi di design o decorazione. Sono ibridi che sfidano le categorie: sembrano vivere accanto agli altri oggetti della casa, dialogano con loro, si collocano in quella soglia tra funzionalità e simbolo. Là, dove un contenitore diventa paesaggio, una lampada diventa creatura, una superficie richiama la natura.
La gente spostava oggetti, li portava via, ne portava di nuovi. Ogni cosa aveva una storia precedente, a volte molte storie. Ora so cosa sono. Sono i muri, il tetto, i tubi dell'acqua. Sono il tavolo da sartoria di un nonno, il lavatoio di marmo di una nonna. Sono i libri accatastati, il barattolo di caramelle, il pappagallo che ripeteva parole a caso. Sono gli oggetti che qualcuno ha scelto di tenere, e quelli che ha dimenticato.
La mia funzione è semplice: dare spazio.Spazio alle persone, alle loro cose, alle storie che si portano dietro.Non sono un museo, non conservo tutto per sempre.Le cose entrano e escono, come le persone. Io resto, cambio, a volte crollo, mi rialzo.Faccio quello che ho sempre fatto: offro un recinto. Ma senza limiti veri, perché i limiti li fanno quelli che mi abitano.
E quando non mi abitava nessuno, ho capito che non servivo a niente. Una casa è tale solo se ci si vive. Se qualcuno ci mette dentro la propria vita.
Ospitare significa custodire. Custodire significa trasformarsi. Io non racconto solo le persone: racconto le cose che hanno amato, usato, dimenticato. Ogni oggetto, piccolo o grande, utile o inutile, funzionale o ornamentale, diventa parte del mio corpo. Una casa senza oggetti sarebbe un guscio vuoto. Con gli oggetti, invece, divento memoria viva, testimonianza silenziosa, riflesso dell’umanità che mi attraversa.