La casa che amo

Biennale Architettura 2025 Gens

Elogio della semplicità

di Patrizia Catalano

La casa di Francesco d’Assisi, di cui nel 2026 si celebrano 800 anni dalla morte, era il suo errare nomadico nell’Italia centrale, come mirabilmente racconta Flavio Cuniberto nel suo volume “Paesaggi del Regno” (ed. Neri Pozza), la sua casa era il cammino e i luoghi che individuava come gli spazi del sacro: montagne rocciose come a La Verna, dolci colline come a La Scarzuola, e poi grotte, ripari naturali, frasche boschive modelli di quelle che poi diventeranno le celle dei primi conventi francescani: semplici, essenziali, perché il luogo di cui nutrirsi non era l’interno, ma il mirabile paesaggio dell’Italia centrale, i suoi declivi fino ai mari, il Tirreno e l’Adriatico e le sue montagne mistiche.

“La casa che amo” può consistere in un attraversamento, un percorso di vita, che può portare a produrre risultati sorprendenti e assai diversi.

La cella monacale è un concetto che può nascere da moltissime e diverse motivazioni ma il più delle volte fa pensare a una scelta orientata verso la rinuncia dei beni materiali a favore di una vita di maggiore empatia tra il sé e il resto del mondo. Che non necessariamente ha da essere un monastero incastonato nelle bellezze dell’Appennino italiano. La cella, può trasformarsi nell’estensione del proprio modo di vedere il mondo, e quindi diventare quello spazio, quel luogo di massima affinità elettiva di colui che lo abita e che lo ha creato.

Honoré de Balzac per esempio, certo non era un uomo che amava adornarsi di bianche pareti. La sua cella, era una casa adornata fino all’eccesso, un appartamento – ne abitò moltissimi, sempre alla ricerca di un rifugio dagli esercenti che reclamavano saldasse i suoi debiti – inizialmente anche modesta fattura che, grazie al suo gusto squisito (ricco ed eccessivo come la sua epoca richiedeva), alla sua abilità in scovare specchiere, tessuti e consolle, candelieri e porcellane, riusciva a trasformare in una dimora lussuosa e aristocratica degna delle case parigine redatte nelle pagine della Comédie Humaine. Della sua casa in rue de Cassini, dove visse ben nove anni affermava: “Il gusto non si compra. Nella mia casa non c’è lusso ma un gusto che armonizza tutto”. E per Balzac l’armonia significava circondarsi anche del superfluo oltre che del necessario: il suo studio di 6 metri per 4, raccoglieva in una libreria d’ebano nascosta da una specchiera, i preziosi volumi dei classici francesi, e latini accanto ai grandi esoterici e ai pochi autori contemporanei. Sul camino erano disposte chiavi arrugginite, due vasi di porcellana e una sveglia brunita. Quattro sedie in ebano e una poltrona alla Voltaire e infine il tavolo, o meglio lo scrittoio, dove le candele erano sempre accese su due piccoli candelabri accanto alla caffettiera in porcellana bianca decorata in blu con le cifre dell’autore sotto una corona nobiliare. Ma dietro questa affettazione, questo sognare titoli nobiliari che non appartennero mai alla sua famiglia, l’autore conservava un rigore fuori dal comune.

“Balzac si coricava verso le sette del pomeriggio, dopo un pasto leggero, per farsi svegliare a mezzanotte. Lavorava sino all’alba, avvolto in un saio da domenicano con il cappuccio. Neanche la più piccola macchia doveva intaccare il candore della tonaca, di cachemire in inverno, di cotone d’estate”. (Giuseppe Scaraffia, “Torri d’Avorio, ed Excelsior).

L’empatia con lo spazio del sé attraversa secoli e culture, ed è particolarmente affascinante quando trasmette l’autenticità di chi lo ha creato. Può essere voluto, casuale o necessario. Nel caso dell’ultima residenza di George Simenon, l’autore sceglie uno spazio privo di qualsiasi decoro. Il grande scrittore belga abitò in moltissime case diverse, contrariamente a Balzac, le sue erano scelte motivate da ragioni di status, e si trattò il più delle volte di dimore e chateaux bellissimi ed elegantemente arredati. Ma per la sua ultima casa a Losanna in Rue des Figuiers, denominata La casa rosa, l’autore costruisce un interno fuori dal comune e soprattutto dai suoi parametri. Lì ritrovò quella semplicità austera tante volte descritta nel suo commissario Maigret ma mai professata: mobili in formica ordinari e privi di decoro, nessuna libreria, nessun accessorio. Solo lo stretto necessario. E in quello stretto necessario, quel che contava di più era il giardino, dove sotto un cedro del Libano erano disperse le ceneri della sua adorata figlia Marie-Jo. (George Simenon, “Memorie Intime”, ed. Adelphi).

Il vuoto come necessità quindi. L’approdo di Marcel Duchamp a New York, il 15 giugno del 1915 sposta l’asse dell’arte mondiale da Parigi e l’Europa a New York che egli definisce “un’opera d’arte totale”. Lì il surrealista Duchamp, l’uomo dalle molteplici ambiguità, lo straordinario maestro di scacchi, l’inventore del Ready Made, trova superflua ogni forma di decoro: a partire dall’arte naturalmente, dal suo modo di fare arte. La sua casa può essere Manhattan, e l’arte può abitare ovunque anche in quelle ‘scatole valigie’ che diventano una delle più significative espressioni d’arte, nate per altro da una necessità pratica: muovere le opere da un luogo all’altro, da un continente all’altro, con maggiore agilità. Ma la casa di M.D. resta un enigma, come del resto la sua vita. Lo spazio domestico non rappresenta una necessità, o meglio, le necessità che Duchamp richiede a un appartamento sono a dir poco essenziali, nella sua prima abitazione in Lincon Arcade, un edificio sulla Broadway, fra la 65ma e la 66ma strada, che ospitava diversi studi d’artisti, M.D. si trova perfettamente a suo agio.

“Si trattava di un’unica stanza con una vasca da bagno di ghisa a centro della camera. Costava solo 40 dollari al mese: a Duchamp andava benissimo. L’unico intervento che fece fu di installare un cavo per riuscire ad aprire la porta mentre faceva il bagno”. (“Marcel Duchamp, la vita a credito”, ed. Johan & Levi).