La casa che amo

Biennale Architettura 2025 Gens

Specchi dell’identità, riflessioni sulla conoscenza di Sé

di Christine Enrile

jana Mac Adam Freud, Family Matters,

Abitare come riflessione

Nell’arte di abitare, ogni oggetto diviene specchio di memorie, desideri e silenzi. ogni spazio custodisce frammenti di storie, imperfezioni, dettagli che ci invitano a soffermarci. In questo contesto, il silenzio imperfetto non è assenza, ma presenza sospesa: un invito a osservare, a sostare, a lasciarsi sorprendere. La casa che amiamo non è mai soltanto un contenitore di funzioni: è un contenitore di emozioni. E’ un luogo che vive, che respira insieme a noi. Le cose che scegliamo di tenere accanto-un tavolo, una fotografia, uno specchio-parlano di ciò che siamo e di ciò che abbiamo perduto. Abitare significa dunque riflettere: vivere lo spazio e, insieme, lasciarci guardare da esso.

Lo specchio- oggetto esperienza simbolo

Lo specchio è un oggetto tanto comune quanto misterioso. Appartiene alla quotidianità, eppure conserva una forza quasi magica: fonde vero e illusorio, mostra e nasconde, restituisce un’immagine che è nostra ma non ci appartiene mai del tutto. Guardarsi nello specchio è un gesto antico, un atto di conoscenza e di spaesamento. Sin dai tempi antichi lo specchio ha affascinato filosofi e artisti. Seneca, nelle Naturales Quaestiones, descrive gli specchi naturali- superfici d’acqua, laghi, gocce di pioggia- e quelli realizzati dall’uomo. I primi specchi, in rame in bronzo, restituivano immagini attenuate, imperfette. Eppure proprio quell’opacità li rendeva strumenti preziosi: permettevano di osservare eclissi senza danno, ma soprattutto invitavano alla riflessione, letteralmente e simbolicamente. Seneca infatti attribuiva allo specchio una funzione etica: l’uomo saggio doveva averne uno per potersi osservare ogni giorno e meditare su di sé. Il riflesso non serviva alla vanità, ma alla conoscenza: era un tentativo di osservare l’anima attraverso le espressioni del volto.

La cura di sé, lo specchio come esercizio filosofico

Molti secoli dopo, Michel Foucault, nel saggio ‘le souci de soi’(1984), ritrovava nel pensiero greco la radice di quel gesto, ovvero la cura di sé come fondamento del conoscere. Non si può conoscere il mondo, dice Foucault, se prima non si conosce sé stessi. Il prendesri cura di sé diventa così un esercizio di libertà, un modo per non essere prigionieri delle proprie pulsioni e dei propri automatismi. Guardarsi allo specchio, in questo senso, non è un atto narcisistico ma un esercizio spirituale, un momento di confronto con la propria verità interiore.. Lo specchio diviene strumento e metafora di questo momento di attenzione. La storia dello specchio- dal bronzo opaco al vetro lucente- racconta anche la storia del nostro rapporto con l’immagine. Vedere per riconoscere. Mantenere limpido il riflesso era un modo per mantenere chiara la mente. Quando gli specchi a Murano divengono finalmente grandi e perfetti l’immagine non appare più come un frammento bensì come una presenza completa. Ma nella pienezza di quello sguardo si nasconde una nuova inquietudine: chi guarda e chi è guardato?

Jane Mac Adam Freud, Eye Mind, Eye Out,

Tagliapietra, Borges e la moltiplicazione dello sguardo.

Il filosofo Andrea Tagliapietra, nel suo saggio ‘La metafora dello specchio’, parla delo specchio ome di un enigma visivo: un luogo di incontro tra reale e immaginario. Lo specchio, dice, non è un oggetto ma un’esperienza. Un altrove in cui lo sguardo si duplica e si interroga. Borges e la Biblioteca di Babele, un universo infinito di libri e lingue dove tutto si ripete e il senso sembra dissolversi: “…Nel corridoio è uno specchio che fedelmente duplica le apparenze. Gli uomini sognano di inferire da questo specchio che la Biblioteca non è infinita…io preferisco sognare che queste superfici argentate figurino e promettano l’infinito…” E’ questa illusione che viene svelata dallo specchio, l’infinito non è reale ma nasce dalla moltiplicazione dell’immagine riflessa, diventando così chiave di conoscenza, strumento che rivela la natura illusoria del mondo. Tagliapietra ci invita ad attraversare lo specchio senza fermarci sulla sua superficie. Solo in questo modo si può accedere a quella che chiama la storia simbolica dell’esperienza dello specchio. Un percorso che unisce filosofia arte e percezione. Foucault nel suo scritto “ Des espaces autres “, chiama questo genere di spazio eterotopia , ovvero uno spazio che presenta caratteristiche di realtà e irrealtà al medesimo tempo in cui ci vediamo ma non siamo. Lo specchio è dunque un’eterotopia domestica che ci restituisce un altrove dentro le mura di casa. E’ il luogo in cui il visibile, il percetto, si apre all’immaginario, e l’abitare diviene strumento di conoscenza.

Jane Mac Adam Freud, On Identity

Metafora e conoscenza, Blumenberg e Freud

Attraversare lo specchio significa entrare nella dimensione della metafora. La stessa parola, metapherein, significa trasporto. passaggio. La metafora non descrive, suggerisce, sposta, trasforma. E’ un pensare per immagini e per questo più vicina alla verità dell’esperienza che non alla verità della logica. Hans Blumenberg parla di verità assolute: quelle immagini fondative che attraversano la storia del pensiero e non si lasciano tradurre in concetti. E lo specchio è esattamente una di queste. Lo specchio come metafora della conoscenza, ma anche della sua ambiguità, poiché ogni forma del conoscere è di fatto un riflesso. Freud apre un’altra prospettiva quando confronta la mente ad un iceberg. La parte visibile è la coscienza quella sommersa è l’inconscio. la metafora diviene qui strumento d’indagine, una chiave che apre e svela: il sogno è la via regia per l’inconscio, la metafora è la chiave che apre quella via.

Jane Mac Adam Freud, Selfportrait, from Discerning Eye, 2013

Jane Mac Adam Freud e la genealogia del riflesso

Una discendente di Freud, l’artista Jane Mac Adam Freud, ha ereditato queste modalità dello sguardo, lo specchio come strumento di conoscenza, come dispositivo psichico e poetico. Figlia di Lucien Freud e pronipote di Sigmund, Jane nasce dentro una genealogia che la precede e la abita. La sua opera è un dialogo con questa eredità, una cura riflessiva in senso letterale. Per lei lo specchio è un osservatorio privilegiato, il punto di partenza per interrogare la propria identità, la memoria familiare , la trasmissione dei legami. Le sue sculture in rete metallica e le sue installazioni in vetro riflettono e assorbono la luce, creando uno spazio di trasparenze, di presenze che si sovrappongono. I ritratti intrecciati del padre e del bisnonno diventano riflessi infiniti, come se le generazioni dialogassero attraverso la materia. E’ una cura della cultural legacy: prendersicura dell’eredità, trasformarla in materiale creativo.

Se per Freud la parola era talking cure, per Jane l’arte diviene una reflective cure, un atto di guarigione attraverso lo sguardo. Scriveva:” Continuo a osservare un riflesso nello specchio, al di là di ciò che potrei desiderare di vedere. Tutte le risposte sono nello specchio…” In questa frase si concentra il senso del suo percorso, ovvero l’arte come strumento di verità, la riflessione come forma di vita. L’identità, per lei, non è una realtà fissa ma un processo in divenire, una trama di relazioni. Lo specchio diviene così metafora vivente del rapporto tra sé e gli altri, tra genealogia e libertà. La sua opera è un esercizio di ri-appropriazione del sé, un guardare dentro l’immagine per ritrovare il proprio volto attraverso lo scorrere del tempo. Lo specchio come identità, non superficie ma profondità. E’ in questo senso che le opere della Freud attraverso l’idea di riflesso si adeguano perfettamente all’idea dell’abitare, ovvero del vivere in uno spazio che non è solo fisico ma anche genealogico, emotivo, simbolico.

Il perturbante e la casa interiore

Un’altro autore che ha esplorato la potenza simbolica dello sguardo è Federica Marangoni. Nel suo lavoro Enigma, il riflesso si sposta dal tema dell’identità a quello del perturbante, l’ Unheimlich freudiano, ovvero ciò che è al medesimo tempo familiare e inquietante. Davanti ad una piccola casa in perspex nero lucido, lo spettatore è invitato a guardare dentro un foro. All’interno una fuga prospettica di luci azzurre crea una impossibile profondità, potenzialmente infinita, un effetto Droste, dove ogni immagine contiene la successiva. Sopra, in rosso, la scritta Das Unheimliche. La casa, simbolo per eccellenza del familiare, si trasforma nel luogo dell’enigma. Quello che dovrebbe proteggerci diventa teatro del dubbio. E’ il luogo in cui la memoria si sovrappone al sogno, la sicurezza si apre alla vertigine. L’artista mette in scena lo specchio come soglia dell’inconscio, come dispositivo che rivela e nasconde. L’opera è un invito a guardare dentro la casa che amiamo, ma anche dentro la parte di noi più nascosta, quella stanza interiore dove familiare ed estraneo si confondono.

Infine

Lo specchio, nella sua apparente semplicità, custodisce uno dei più grandi enigmi dell’esistenza. E’ oggetto e metafora, confine e possibilità. Ogni riflesso è un dialogo tra visibile e invisibile, tra l’io e l’altro, tra ciò che siamo e ciò che possiamo diventare. Guardarsi allo specchio significa accettare di non possedere mai del tutto la propria immagine. Significa riconoscere che d’entità è un cammino, non un punto d’arrivo. E come in ogni casa che amiamo, anche nello specchio vivono memorie desideri e silenzi. Forse aveva ragione Jane Mac Adam Freud: tutte le risposte, anche quelle che ancora non possediamo, sono ancora e sempre nello specchio.