Residui

Lichtung

(d’aprés Heidegger)

Una radura, Lichtung, entro cui appare un debole chiarore. Al diradarsi dell'ombra nel bosco appare infine una luce, una luce, come un ritrarsi del buio. La luce, come condizione residuale, apre infine alla percezione del Sé.

Resto o residuo? Il resto è la differenza tra due unità, il risultato di una sottrazione. Il residuo è un filamento che dal passato arriva sino al presente, che congiunge il passato con il presente e contribuisce alla percezione unitaria (psicologica) del tempo storico. Il residuo è ciò che rimane, ciò che persiste nel tempo, di un’azione, di un pensiero, di un luogo, di un tempo, di una persona. Il filamento residuale è ciò che ci consente di definire un luogo attraverso una persona o una persona attraverso un luogo. Le persone portano a volte sui loro volti le tracce residuali dei posti dove sono nati e dove hanno vissuto, e attraverso i loro sguardi ci consentono di intendere il senso più misterioso e nascosto dell’appartenenza ad un luogo. Niente è eterno, ma qualcosa dura più del tempo dell’uomo. La fotografia non rappresenta la realtà bensì la deforma, la limita attraverso le sue scelte restituendo un’immagine inconcepibile, magica perché somma di passato, presente e qualche volta anche di futuro. Residuale. Non è il soggetto fotografato a essere un filamento residuale, bensì la fotografia stessa, in quanto, per definizione, somma di valori diacronici.

Il residuo, sempre focalizzato, costituisce il centro del passato. Il sapore di una madeleine è perfettamente focalizzato nella mente di Proust, mentre forse non saprebbe indicare con altrettanta precisione il colore della tazza appoggiata sul bordo del suo comodino. Il residuo è un avanzo, non uno scarto, è ciò che rimane e perdura nel tempo di un’azione o attraverso l’effetto immediato di quell’azione, la sensazione che ne deriva, o attraverso l’effetto trasferito nel tempo dalla memoria di quella stessa sensazione, enfatizzata da un transfert visivo. Ma quale è il valore residuale del tempo? La memoria? Oggetti e cose che rimangono? Icone pittoriche o fotografiche? Il suo valore residuale è qualcosa del tempo-in-sè che permane nell’immediato come sensazione del passato. E’ il risultato dell’azione del tempo. Ma se le cose appartengono sempre, fenomenologicamente parlando, al tempo in cui vengono percepite, e cioè all’eterno presente in cui siamo costretti a vivere, se le icone condividono da una parte lo statuto della memoria di mero strumento e dall'altra la condizione di un qualsiasi oggetto fenomenico, se ne dovrebbe dedurre che il tempo non potrà mai avere alcun valore residuale.

Ma è davvero così?

Prendiamo l’esempio dell’esposizione fotografica, dove dare più tempo o meno tempo del necessario comporta una sovraesposizione o una sottoesposizione della pellicola. In tal caso la differenza tra il tempo corretto e quello impiegato si pone come uno scarto temporale che assume il valore di residuo nell’errore che viene percepito o nell’eccesso o nel difetto di luce dell’immagine. Fotograficamente parlando l’errore è quindi il filamento residuale che ci consente di percepire la consistenza fenomenica del tempo.

Viceversa lo spazio è definito, circoscritto e limitato attraverso i luoghi. I luoghi sono la caratterizzazione fenomenica dello spazio. Ma come posiamo intendere il valore residuale che appartiene ad un luogo, che ci consente di identificare un luogo come sommatoria di tutte le azioni, di tutte le sensazioni da queste evocate, in assenza delle persone che le hanno compiute e spesso anche dei loro risultati concreti? O meglio, come possiamo intendere ciò che rimane della sostanza di un luogo dopo che ciò che lo ha caratterizzato, per esempio una città, una casa, un giardino, permane non nella memoria di un vissuto che non abbiamo, e neppure nella sensazione come residuo di azioni passate, ma solo nella decadenza delle cose?

Forse solo attraverso la rovina, ovvero ciò che rimane fisicamente a rendere testimonianza nel presente di una condizione aurea del luogo, il suo particolare ‘genius loci’, ovvero quel tratto distintivo che rende unico un posto in quanto somma e stratificazione di tutto ciò che in quel luogo è accaduto. Ovviamente il genius loci non è caratterizzato solo da ciò che l’uomo vi ha realizzato nel corso del tempo ma dalla somma di questo con i suoi caratteri ambientali e climatici. Il filamento residuale è in questo caso una sorta di valore entropico che ci permettere di percepire le caratteristiche di una cosa, al di là della sua presenza fisica, solo nel suo disgregarsi nell’infinitezza del suo telos negativo, attraverso il particolare modo attraverso cui la natura divora la ragione. Infine le persone. Attraverso la fotografia possiamo riconoscere, anche in presenza di elementi molto sottili o molto deformati, i tratti residuali che ci fanno riaffiorare alla memoria il carattere di una persona conosciuta o ci illuminano sul carattere di un persona che non abbiamo mai visto prima.


Il valore residuale di una persona, in fotografia, è quindi il suo fantasma, così come appare e si delinea piano piano, apparendo dal nulla della bacinella dello sviluppo, venendo da un passato di cui ormai non esiste più traccia, se non nel residuo fantasmatico che appare sulla carta fotografica. Ciò che crediamo di vedere è solo l’impressione di una realtà che non c’è, che non c’è mai stata e che probabilmente non ci sarà mai. Un fantasma, appunto. I residui dunque alimentano le certezze del passato grazie ai ricordi, essendo legati da un lato a un luogo e dall'altro a quello che di un luogo possiamo ricordare.

Nel Fedone Socrate traccia la sua teoria dell'anima. E' il ricordo la chiave di volta della sua dimostrazione dell'immortalità, il ricordo come rammemorazione delle vite precedenti il ricordo come maieutica della conoscenza. La vita, come la marea, quando si ritrae lascia sulla sabbia tanti piccoli residui, che rappresentano da una parte la memoria di ciò che è stato, dall'altra il seme della vita futura. La dialettica tra la vita e la morte è compensata dal residuo di memoria che la prima lascia beffando la seconda. Il ricordo, in quanto residuo, si oppone all'omologazione del presente, all'ineluttabilità della morte.

Se volessi pensare alla fotografia come a un'arte applicata, dovremmo anche pensare al suo specifico oggetto, alla 'conditio sine qua non' che la rende tale. Se un vasaio realizza un vaso, per quanto bizzarra possa essere la sua forma, deve sempre rispondere ad una funzione specifica, il contenere. Un fiore, dell'acqua o dei cioccolatini, non ha importanza, basta che contenga qualcosa. Così per la fotografia: ciò che rende la fotografia arte applicata è la funzione della 'mise en scene' del ricordo, con tutto quello che ne può derivare. Ha bisogno di un soggetto, ma il suo soggetto non sarà mai il qui e l'ora della rappresentazione (come nel caso del teatro, p.es.), ma sempre il passato proiettato verso il futuro. La nostalgia e la speranza chiudono il cerchio magico del ricordo come forma maieutica del sapere. E' la prova concreta del nostro essere nel mondo. Ciò che dice e ridice infinite volte, che noi siamo stati e che, con un poco di fortuna, saremo ancora, è la testimonianza di un passato di cui solo noi siamo protagonisti e l'espressione del desiderio che questo passato possa ritornare. Ma è solo grazie alla fotografia, alla sua concreta applicazione nel mondo delle cose, che il nostro passato si fa oggetto e diventa finalmente il qui e l'ora, il sempre presente in quanto 'fotogramma', misura della luce. La vita quindi non cessa mai e noi, grazie all'immagine fotografica, possiamo condividere un poco di quell'immortalità il cui segreto gli dei custodiscono con estremo rigore. E’ soprattutto l'idea residuale che ci consente di considerare la vita come un eterno fluire, dove la dialettica del solve et coagula non cessa mai di far girare la macina, grazie a quella piccola particella di imperfezione che le vite passate inevitabilmente lasciano alle loro spalle, a quel piccolo resto che per quanto microscopico sia ci permette di ricominciare ogni volta da capo. Quando la vita si sottrae è solo il residuo dei nostri ricordi ciò che ci rimane e ci consente di considerare il vuoto che abbiamo di fronte come potenzialmente pronto ad accogliere una nuova esperienza. Si potrebbe dire che sul ricordo si fonda il tentativo, quasi sempre riuscito, di far rivivere una nuova esistenza, quasi il ricordo fosse un'evocazione teurgica, un rito sacro che ci consente di evocare dagli abissi la dea della vita. Il ricordo è il fantasma su cui si fonda l'intera successione di tutte le nostre esistenze. Se il residuo è un'imperfezione attraverso cui il ciclo si deteriora senza mai esaurirsi, ecco che dalla Zohar, dal libro della Luce dei cabalisti ebraici, ci viene un piccolo aiuto a migliorarne la comprensione. Il residuo è assimilato all'idea del male, poiché viene indicato come ciò che rimane nel mondo dell'ira divina, e che al suo ritrarsi acquista autonomia e antinomia, ovvero si oppone come male alla sopravivenza del bene.

Sempre di un'onda si tratta, sempre di qualcosa che resta alla fine di un ciclo, pur anche sia un ciclo distruttivo. Il diluvio universale per esempio. O quello che i cabalisti chiamano 'la luce senza pensiero', la forma perfetta della morte.

Da questo residuo, dal suo rendersi fatalmente autonomo dalla forza che lo ha generato e da cui proviene, nasce l'idea e la certezza della presenza del male nel mondo. Al ritrarsi della manifestazione divina, come al ritrarsi dell'onda, sul terreno sabbioso della vita restano ancora le scorie, la memoria di ciò che è stato, e sulla base di questa memoria il mondo agisce, come la morte che segna per sempre l'esperienza della vita. Se l'uomo fosse libero dall'idea della morte le sue azioni sarebbero improntate a pratiche morali profondamente diverse. Come per altro dimostrano tutte quelle vie che hanno come obiettivo la liberazione dell'essere umano, più che la sua divinizzazione. Il male non è dunque che il residuo distorto e crepuscolare dell'immagine della nostra esistenza, che copre la vita come la polvere ricopre la forma delle cose e ne segna la presenza anche quando queste non ci sono più, ne traccia il profilo, il negativo, appunto, sulla lastra sensibile della nostra memoria. Quella traccia polverosa ci perseguita con puntigliosa insistenza per dirci continuamente di ciò che non c'è più, ma che con maligna coerenza rifiuta di uscire per sempre dalla nostra vita, regalandoci finalmente il lusso dell'oblio. Il male si incastra perciò nelle nostre vite attraverso il residuo, o meglio, attraverso la necessità di far rivivere il passato grazie al ricordo, in una sorta di ritualità perversa, o meglio sarebbe dire di scongiuro perenne e blasfemo, che nel suo apotropaico gesto finale sembra più voler allontanare il pericolo del futuro che far rivivere le glorie del passato, con un 'ansia di immortalità che ci vuole simili a dei, e di cui, buddhisticamente, faremmo volentieri a meno. Dio ci liberi dal desiderio di Dio.

Fuori dal tempo. Ecco che allora la fotografia assume un ruolo importante, in una sorta di catarsi liberatoria che consente di eliminare, attraverso un uso sapiente delle immagini, questa cinica emanazione del reale, per esorcizzarlo attraverso una forma che non evochi più, ma che si presenti come un tempo dilatato, senza un qui e senza un ora, oltre quella storia che ne rende la percezione iniqua. La fotografia diviene l' immagine programmata del nulla, di un vuoto non più carico di aspettative messianiche che forse può aiutare a evocare ancora una volta lo spirito, come un residuo di vite passate che si affacci dal cielo delle idee per illuminare i silenziosi sentieri del nostro eterno cammino.

Alcuni luoghi possono ereditare caratteri eccezionali, splendori paesistici e architettonici che li rendono soggetti ideali per una fotografia della menzogna, di un’immagine il cui scopo è creare l’illusoria sensazione di un’ottimistica bellezza del mondo, creato dalla bontà di Nostro Signore a sua immagine e somiglianza. Sappiamo che le cose non stanno esattamente così, e che tale bellezza o tale bontà, se anche sia mai esistita, ha cessato da molto di essere la silenziosa compagna dei nostri pellegrinaggi e che da troppo tempo ormai il nostro piccolo paradiso terrestre assomiglia alla dimora degli spiriti infernali. Siamo passati, quasi senza rendercene conto, da un mondo permeato dall’idea di progresso e di speranza a un mondo dominato dalla paura e dall’incertezza. L’orrore che ci circonda ha indossato la veste usuale e quotidiana delle banalità e delle necessità dettate dall’istinto di sopravivenza.

L’eccezione conferma la regola, anzi, l’annulla. E quei pochi tratti residuali di bellezza nei quali ancora ci possiamo imbattere esaltano ancor più la normale epifania dell’orrore che ci circonda. Se la regola del mondo è la banalità, ciò che ci possiamo aspettare dalla verità in fotografia è la messa a nudo del regno delle quantità, della dittatura dei numeri, dalla presa di potere degli ingegneri e degli economisti. Dio è un ragionerie, e il creato risponde alle logiche quantitative dei tassi di interesse e del debito pubblico. E’ una via a senso unico, solo andata senza ritorno. L’enorme complessità della società contemporanea, giustificata dalla necessità di sopravivenza di miliardi di esseri umani, rende indispensabile il dominio del numero, il regno delle quantità e l’impero delle statistiche, il presidio dell’ingegnere sulla plancia di comando. Fotografare il mondo e i suoi siti richiede dunque l’esercizio monastico della rinuncia alla bellezza, l’enfasi del detrito e del suo nulla e la capacità di ritrovare dentro questo nulla il valore residuale, il suo potere, ciò che un giorno potrà far risorgere dalle ceneri l’araba fenice della via dello spirito.

La scelta dei luoghi è quanto mai casuale, dettata vuoi da una serie di coincidenze statistiche, quali, per esempio, dal numero di volte in cui mi ero recato in un certo posto e quindi da un grado di familiarità e di conoscenza puramente quantitativa, vuoi, al contrario, dalla stocastica casualità di un viaggio non cercato ma dovuto, sia per lavoro che per motivi famigliari . Conosco Milano per esserci vissuto troppo a lungo. Non provo più nessuna meraviglia o stupore per le architetture di una città che trovo più necessaria che piacevole. Viceversa conosco Venezia per averci studiato e per averla frequentata sporadicamente per molto tempo. La sua necessità nasce dalle sue bellezze, ma proprio queste l’hanno resa ridondante e molesta, acquitrinosa come un mal di testa in una giornata di sole. La conoscenza e la frequentazione continua mi hanno spinto verso una serie di immagini marginali, periferiche e indirette, residui di una conoscenza che dura da molto tempo. Tutto il resto nasce da incontri non premeditati ne richiesti, quasi fosse la fotografia un accessorio di itinerari subiti. Nessuno dei siti citati ha mai avuto e ne, suppongo, mai avrà una relazione con le mie vite passate o future.

Unica chiosa, il tempo: un tempo residuale, collocato tra due picchi eventuali, vuoi nell’arco di un’unica giornata, vuoi nel corso dell’anno solare. Un luogo può essere fotografato come fosse deserto, quando la sua caratteristica principale è di essere transitato da migliaia di persone nell’arco di una giornata. Il tempo residuale rende uno spazio residuo, colto dunque nell’istante in cui è l’assenza che lo caratterizza, attraverso i segnali residuali delle sue funzioni. Un luogo diviene vuoto quando è temporaneamente residuale.