La casa che amo
Biennale Architettura 2025 Gens
Intelligenza naturale, artificiale e collettiva: il progetto della casa che amo
di Renato Troncon
Premessa
Lo scopo di questo contributo è delineare un quadro critico capace di riscoprire lo spazio domestico come uno spazio “profondo”, in un’epoca segnata da un intreccio specifico e, a mio avviso, non convincentemente annodato tra intelligenza naturale, intelligenza artificiale e intelligenza collettiva. Per raggiungere tale obiettivo, è necessario chiarire come faccia questo intreccio - peraltro e come noto richiamato anche nel titolo della Biennale Architettura 2025 – a definire in buona parte il perimetro della riflessione contemporanea sull’architettura e sull’abitare. In conclusione, sulla base di chiarimento, proverò a suggerire una visione diversa di quali strategie la progettazione dovrebbe abbracciare in un’epoca, la nostra, definibile a pieno titolo come “epoca delle intelligenze”. Aprire, o mantenere aperto, lo spazio domestico come spazio di “profondità” non è infatti perseguibile riducendo l’abitare a semplice fattualità o a raccolta di soluzioni e contenuti dati, ma richiede un’intelligenza dell’abitare che non si accontenti di sommarne o passarne in rassegna i caratteri più definiti, bensì li consideri come qualcosa di mai completo, persino povero o spoglio, proprio perché solo un vuoto fertile può fare posto a qualcosa di altro e di sovrabbondante.
Memoria e realtà: dov’è Bloomsbury?
Inizio commentando come il “Bloomsbury House” evocato dal programma di questo convegno e certamente proposto come metafora non vada inteso come un semplice insieme di elementi architettonici (giardino, arredi, dettagli costruttivi), né come il prodotto di un’ispirazione creativa particolare, o risultato di vicende e affollamenti storici. Piuttosto, Bloomsbury rappresenta una direzione – simile a una regola costruttiva implicita - che rinvia a un modo autentico di abitare. In tal senso, trova la sua espressione più generale nelle parole di Martin Heidegger che, in apertura del saggio Dichterisch wohnet der Mensch (1951), cita il celebre verso di Hölderlin: «Pieno di meriti, ma poeticamente abita l’uomo su questa terra». Heidegger riconosceva così l’abitare come un’attività essenzialmente umana, ma comunque come un’apertura all’Essere - poiché per lui poeticamente equivale ad abitare nell’orizzonte del sacro.
Nonostante i cento e più motivi che intrecciano il caso Bloomsbury – penso siano tanto numerosi quelli elencati nell’indice analitico del noto libro di Quentin Bell e Virginia Nicholson Charleston: A Bloomsbury House and Garden(1997) - il Bloomsbury a cui qui si allude può anche rovesciarsi ed essere rappresentato dal suo opposto: può assomigliare più a una capanna che a una reggia, in quanto allude a un abitare che rende la vita autentica. Nel Faust IIdi Goethe, ad esempio, la semplice capanna di Filemone e Bauci - coppia di anziani contadini proprietari di un piccolo podere – incarna un ultimo frammento di terra sottratto al dominio di Faust. Quando Faust, per espandere il proprio impero, ordina a Mefistofele di espropriare quel terreno, i suoi emissari uccidono brutalmente i due vecchi e il loro ospite. Sconvolto da questa crudeltà, Faust rinuncia ai suoi piani di dominio illimitato, comprendendo - tuttavia troppo tardi - il valore incommensurabile di quel modesto abitare autentico.
Bloomsbury può pertanto essere letto come il paradigma dell’abitare poetico, ma a condizione di comprendere che anche un ambiente umile e “povero” può custodire la profondità e sacralità della vita quotidiana, laddove l’abitare diventa apertura a ciò che eccede il mero funzionale. È questa direzione - un abitare poetico-sacro, radicato nell’autenticità - che vogliamo capire se e come sia “intellegibile” nella prospettiva di ciò che oggi è dato come “intelligenza”.
Il perimetro delle intelligenze
Procedere verso una comprensione autentica dell’abitare richiede di confrontarsi con ciò che oggi definisce il perimetro di ogni riflessione. Questo perimetro è tracciato dalle tre intelligenze che lo circoscrivono - naturale, artificiale e collettiva - che vengono anche non casualmente menzionate nel titolo della Biennale Architettura 2025 (Intelligens. Natural. Artificial. Collective.). Esse dettano i percorsi entro i quali si sviluppa la discussione e determinano, in buona misura, i codici e le prospettive tramite cui poniamo le questioni di oggi. Il confronto tra questi tre tipi di intelligenza, tuttavia, non avviene lungo linee di libero dibattito ovvero di approfondimento filosofico e scientifico, al contrario, esso risulta polarizzato da una visione che identifica l’“intelligenza” tout court con la sua forma artificiale.
La causa di questa polarizzazione può essere individuata nella rimozione, dall’orizzonte teorico, della prospettiva della “rilevanza” e, contestualmente, del linguaggio (e suoi formati dialogici) che di tale rilevanza è veicolo all’esperienza umana. Solo un chiarimento di entrambi questi aspetti (che cosa è davvero rilevante per un’intelligenza, e quale ruolo svolge il linguaggio nel determinare tale rilevanza) può aiutarci a ridefinire in senso proprio il concetto di intelligenza e, conseguentemente, a fornire strumenti per comprendere l’abitare come apertura alla sacralità.
Da questo punto di vista è rivelatrice l’oscillazione con cui, nel discorso corrente, si parla di Intelligenza Artificiale: si passa facilmente da entusiasmi euforici a toni allarmistici e depressivi, e perfino l’enfasi su una sua regolamentazione etica è spesso semplicemente di carattere difensivo. C’è chi sostiene che presto avremo a che fare con una superintelligenza non umana in ragione di una ravvicinatissima “singolarità”, chi scongiura la sua devastante disruptività, e chi dichiara con credo interessato o ignorante candore che l’AI non fornisce che risultati neutri - lasciando poi che sia il committente a decidere gli esiti finali, in un’abdicazione completa di ogni centralità cognitiva dell’essere umano e delle sue organizzazioni.
Esempi di queste posizioni opposte sono perfino sovrabbondanti nel dibattito pubblico, ma per brevità qui le tralascio, considerando che prima di essere un prodotto, l’AI è un progetto: essa rappresenta la realizzazione di infrastrutture cognitive che hanno il potenziale - e ormai anche la concreta capacità - di diventare infrastrutture sociali, urbane, architettoniche, ecc. In altri termini, l’AI non è soltanto un insieme di strumenti, ma un processo che riconfigura i contesti in cui viviamo e pensiamo. Proprio per questo, l’approccio riduttivo all’AI che la relega ora a minaccia apocalittica, ora a semplice tecnica neutra può e deve essere decostruito alla luce di ciò che la ricerca stessa sull’AI ci dice. Certo qui occorre dare ascolto, prima ancora che agli umanisti, agli ingegneri e agli scienziati che progettano queste tecnologie. Questi ci spiegano che l’AI contemporanea - in particolare quella dei sistemi di machine learning e delle reti neurali profonde - è un’intelligenza eminentemente quantitativa e probabilistica, un qualcosa che qualcuno ha definito una potenza “massiccia”, un enorme motore statistico che inghiotte terabyte di dati e, attraverso il pattern matching, genera risposte identificando correlazioni e regolarità nei dati. ChatGPT, per esempio, non “comprende” nel senso umano del termine, ma funziona prevedendo la parola successiva più probabile, basandosi su modelli statistici addestrati su ingentissime quantità di testo. Questa intelligenza è conversazionale (sa interagire linguisticamente in modo coerente, secondo il suddetto principio), ma priva di esperienza diretta del mondo, è massiva, perché utilizza una quantità enciclopedica di conoscenza già pronta e incorporata nei suoi parametri, ed è probabilistica, poiché procede attraverso graduazioni di probabilità, non mediante autentica comprensione semantica.
Geoffrey Hinton - Premio Turing 2018 e Premio Nobel 2025 per la Fisica - ha inquadrato efficacemente questo profilo dell’intelligenza artificiale spiegando che essa può essere considerata “immortale”. Essa è tale nel senso specifico che un modello di IA può essere copiato indefinitamente e distribuito su molteplici macchine, può addestrarsi su miriadi di dataset ed “emettere” conoscenza cumulativa, condividendola istantaneamente fra copie identiche di sé. In breve, l’intelligenza digitale può apprendere ed espandersi migliaia di volte più di qualsiasi singola persona, proprio perché non è vincolata ai complessivi limiti biologici dell’esistenza umana. L’intelligenza biologica umana, invece, è mortale: “quando l’hardware [il cervello] muore, la conoscenza appresa muore con lui”, osserva Hinton. Il passaggio di sapere da una generazione umana alla successiva è lento e inefficiente, frutto di un insegnamento laborioso e mai totale. Questa differenza fondamentale - l’AI come intelligenza immortale e replicabile vs. l’intelligenza umana come mortale e irripetibile - può anche suggerire perché alcuni temano un sorpasso futuro delle macchine e perché si possa pensare che entità capaci di accumulare conoscenza virtualmente illimitata e distribuibile potrebbero un giorno prevalere sugli esseri umani.
A fronte di questa natura eminentemente massiva e standardizzante dell’IA, che macina grandi numeri e ricerca schemi generali in che cosa invece è diversa l’intelligenza naturale, ossia l’intelligenza umana? La risposta potrebbe essere: in (quasi) tutto. Noam Chomsky ha osservato con pungente chiarezza che la mente umana non è un ingombrante motore statistico come ChatGPT, bensì un sistema sorprendentemente efficiente ed elegante, capace, si noti, di operare con pochissimi dati per creare complesse spiegazioni del mondo. Un bambino impara la propria lingua e produce frasi originali con velocità prodigiosa a partire da input minimi, e lo fa in modo del tutto inconsapevole. Ciò suggerisce che la nostra intelligenza lavora per astrazioni, ipotesi, creatività, non per mera estrapolazione da milioni di esempi. In effetti, aggiunge Chomsky, i sistemi di AI rimangono bloccati in una fase che semmai potrebbe essere definita pre-umana, privi di quella capacità critica che consente a una vera intelligenza di discernere non solo ciò che è o sarà, ma anche ciò che non è, ciò che potrebbe essere oppure non essere.
Cosa è, in questo contesto, infine, l’intelligenza collettiva? E’ curioso osservare come essa sia spesso discussa senza metterne in luce le caratteristiche propriamente umane (ovvero, come qui scelto di dire, mortali). Anche qui mi permetto di non dare particolari riscontri testuali ma mi pare di poter dire che molte delle enfasi sul design partecipativo e sugli approcci comunitari assumono varie forme, ma tutte paiono schiacciare l’idea e la pratica del progetto sullo strumento - il collettivo stesso - rivelando in ciò una certa ipocrisia di fondo consistente nel confondere gli approcci modulari alla Enzo Mari con gli approcci comunitari. Il collettivo viene infatti assunto come sorta di garante esclusivo del buon esito del progetto, quasi una formula magica la cui presenza sarebbe di per sé sufficiente a ottenere soluzioni valide. Questo schema logico risulta però riduttivo, se non addirittura riduzionistico: la “grammatica” del progettare è più complessa, composta da molte più parti e presidi, e non è riconducibile a profili collettivo-combinatori. Elevare la partecipazione comunitaria a panacea progettuale occulta i fattori cruciali dello spazio e del tempo, che sfuggono ad algoritmo, ricetta ecc.
Il problema della “rilevanza”
Quanto detto fin qui invita a evidenziare due caratteristiche fondamentali dell’intelligenza - e in particolare della comprensione umana - che sono distintive per gli scopi della presente riflessione. La prima è il legame intrinseco che l’intelligenza umana ha con il linguaggio. La seconda è la sua natura analogica.
Il linguaggio non è solo un mezzo per comunicare pensieri già formati, ma è l’ambiente stesso in cui il pensiero umano nasce e si sviluppa sempre che - ovviamente e comunque - questo resti il suo interesse. Il linguaggio naturale umano, con la sua feconda ambiguità e la sua apertura continua all’interpretazione, rende possibile ciò che chiamiamo “significato”. A differenza di un codice binario o di un linguaggio di programmazione, le parole del linguaggio naturale non hanno confini netti: ogni parola porta con sé un nucleo di senso (un pieno) e al contempo una penombra di possibilità (un vuoto) su cui possiamo giocare. Perciò il linguaggio naturale è uno spazio di costante ridefinizione: siamo continuamente invitati a precisare, contestualizzare, sfumare ciò che diciamo e così aggiornare il significato. Ne consegue che l’intelligenza umana opera attraverso e grazie al linguaggio, in particolare tramite metafore: come già notava Aristotele e come non può non confermare la ricerca cognitiva, gran parte del nostro pensiero consiste nel proiettare qualcosa di conosciuto su qualcosa di sconosciuto, per coglierne una somiglianza profonda. L’analogia è il cuore della cognizione umana: la capacità di vedere connessioni tra ambiti diversissimi è un segno distintivo dell’intelligenza umana, scrivono Douglas Hofstadter ed Emmanuel Sander. A sua volta, lo psicologo cognitivo Keith Holyoak sottolinea che la facoltà analogica è strettamente intrecciata sia con il linguaggio sia con la nostra capacità di comprendere le intenzioni altrui, formando un trittico di capacità che ci rende unici. Questa nostra natura analogica e metaforica implica che l’intelligenza umana è straordinariamente creativa nell’immaginare scenari nuovi a partire da esperienze pregresse, anche minime.
Tutto ciò conferisce all’intelligenza naturale una qualità che potremmo definire di debolezza apparente e al contempo di forza essenziale. Di fronte alla granitica “certezza” dei risultati forniti dall’AI (spesso espressi in modo sicuro e univoco), il linguaggio dell’essere umano può sembrare incerto, sfumato, debole, appunto. Ma è in quella “vaghezza controllata” che risiede la possibilità di dire cose nuove. Le “parole forti” dell’AI - precise, definite - risultano meno duttili delle “parole deboli” del linguaggio naturale, che grazie alla loro elasticità semantica ci permettono di creare nuovi significati e nuove visioni. In sintesi, l’intelligenza artificiale si muove in un universo “chiuso” di correlazioni statistiche, mentre l’intelligenza umana abita un universo “aperto” di interpretazioni e possibilità.
Questo discorso trova un immediato riscontro nel concetto di “rilevanza”, che ci aiuta a tirare, anche criticamente, le somme delle differenze fin qui evidenziate. L’idea di ciò che è “rilevante” cambia radicalmente a seconda che la prospettiva sia quella di un’intelligenza artificiale, umana o collettiva. Dal punto di vista dell’AI e, va aggiunto, di qualunque approccio di tipo artificiale, è rilevante ciò che è generalizzabile, ciò che si presenta con sufficiente frequenza da poter costituire un pattern identificabile del fenomeno che si vuole comprendere. Un caso troppo unico, troppo peculiare - un’eccezione - viene visto come “rumore”, qualcosa da scartare o al più da relegare ai margini. La macchina impara identificando regolarità statistiche, tutto ciò che devia drasticamente dalla norma viene o considerato un errore da correggere nei dati, oppure semplicemente non influenza il modello finale perché non “scala”, non è rappresentativo. Al contrario, dal punto di vista dell’intelligenza umana, la rilevanza è essenzialmente legata all’unicità. Un evento eccezionale, una particolarità irripetibile, una “minuzia”, una sollecitazione (il “punctum” di Brthes) può illuminare la nostra comprensione più di mille casi ordinari. L’eccezione, lungi dall’essere uno scarto, è in realtà il centro vivo dell’intelligenza umana. Pensiamo a qualunque forma di creatività, artistica o scientifica. Il suo avanzamento nasce sempre da mutazioni singolari, da idee che compaiono una sola volta - magari nella mente di un singolo individuo geniale - e che inizialmente possono apparire “irrilevanti” ai più. L’intelligenza estetica, quella coinvolta nei processi artistici e progettuali, si fonda proprio su questo: sul generare utili prospettive inedite, uniche, che spezzano la serie inutile degli schemi già visti. Ciò che chiamiamo “stile” in un progetto o in un’opera è proprio frutto di tale intelligenza estetica e della battaglia per essa, la battaglia di uno sguardo unico che costruisce un framework interpretativo nuovo, differente. Questo valore dell’eccezione e della novità è vitale per la nostra evoluzione culturale. Del resto, anche ciò che in ambito scientifico o didattico chiamiamo “caso di studio” dovrebbe possedere in una certa intensità maggiore o minore la stessa dignità logica del caso rappresentativo o della serie statistica: è nell’eccezione che spesso comprendiamo la regola.
Possiamo allora rileggere il concetto di rilevanza così come segue: per l’AI l’eccezione è irrilevante, per l’uomo e la sua prospettiva non solo esistenziale ma anche metafisica l’eccezione può essere la cosa più rilevante di tutte, al punto da trasformarsi in eccezionalità. Una ricerca recente sui processi creativi umani - condotta mettendo a confronto gruppi con e senza supporto di AI - lo illustra in modo emblematico. In uno studio sperimentale svolto a Wharton, si è osservato che persone che utilizzavano ChatGPT tendevano a convergere sulle stesse idee, con formule sorprendentemente simili, mentre gruppi umani senza AI generavano idee molto più diversificate. In un test di creatività, solo il 6% delle idee prodotte con l’aiuto dell’AI risultava davvero originale, contro il 100% delle idee generate dai gruppi umani “puri”^[14][15]. Questo dato, a suo modo, è quasi metaforico: l’AI spinge all’omologazione, l’umano alla differenziazione.
Qui sta forse la lezione più importante. L’intelligenza naturale umana - poiché mortale, non replicabile e non trasferibile integralmente - porta con sé, attraverso la propria capacità analogica, metaforica e critica e grazie alla “debolezza” del linguaggio, un’irriducibile ricchezza di prospettive individuali. Ogni persona vede il mondo in modo leggermente diverso, e in ciò risiede un valore insostituibile. Nell’epoca in cui affidiamo sempre più compiti alle macchine, dovremmo chiederci quale prezzo pagheremmo nel perdere queste differenze. Se tutti gli edifici abitativi - e non solo essi fossero progettati dallo stesso algoritmo, che “ottimizza” diversità e variazioni sulla base di dati medi e probabilità, avremmo forse molta efficienza ma poca efficacia: tutto sarebbe uniforme e prodromico di conflitti perché privo di anima.
Progettare nell’era delle intelligenze
Quali conseguenze discendono, per il progetto, da quanto fin qui detto? Data la natura fondamentale delle osservazioni svolte, sarebbe ora contradditoria la proposizione sulla loro base di metodologie prescrittive. Diverso è invece individuare alcuni principî guida - mindset - che esprimano il ruolo di leadership che all’intelligenza naturale deve essere riconosciuto in ogni processo progettuale. Più che procedure rigide, occorre infatti delineare dei framework concettuali ispirati ai punti emersi, tali da orientare la scelta e la qualità delle metodologie specifiche impiegate caso per caso. Un framework, in questo contesto, significa una “mappa concettuale” che aiuti a stabilire l’ambito di intervento, i valori di riferimento e il linguaggio operativo ma soprattutto metaforico con cui affrontare le questioni che possono porsi nella creazione di un artefatto o nella generazione di un processo. In breve, un “metodo” - inteso in senso alto - descrive il carattere di un certo processo di progettazione: ne individua le dimensioni fondanti, stabilisce sotto quale aspetto considerare le diverse problematiche progettuali, definisce il registro in cui si opera, ecc. È questa idea di “metodo” che ci porta a definire i framework come mindset – atteggiamenti della mente - di portata generale e, se si vuole, anche valoriale.
Alla luce delle riflessioni sviluppate, è possibile indicare almeno tre mindset che dovrebbero orientare la progettazione nell’era in cui le tre forme di intelligenza sopra menzionate (naturale, artificiale, collettiva) interagiscono tra loro e condizionano la comprensione del processo progettuale, ribaltando il primato dell’artificiale:
Abbracciare la multidimensionalità di forma e funzione come un processo multilineare. La progettazione va intesa come un processo multidimensionale e multilineare, piuttosto che come la semplice applicazione di una “ricetta” algoritmica passo-passo. In pratica, occorre saper bilanciare in modo tendenzialmente creativo forma e funzione attraverso molteplici iterazioni e punti di vista. L’AI odierna può certamente generare geometrie inedite o ottimizzare parametri tecnici specifici, ma abbandonata a se stessa riduce il progetto a una sequenza lineare. Il progettista umano deve invece orchestrare un dialogo costante tra esigenze funzionali (prestazioni, vincoli tecnici, contesto) e aspirazioni formali (qualità estetiche, valori simbolici, esperienza percepita). Non esiste un algoritmo della creatività: le soluzioni di design nascono da esplorazioni parallele, da tentativi ed errori, da intuizioni che non seguono un percorso unico. Solo un processo iterativo a più voci (dati, creatività, tecnica) può portare a sintesi efficaci: la vecchia formula modernista form follows function va riletta in chiave circolare, dove forma e funzione si informano e si plasmano a vicenda, ciclicamente. Progettare con l’AI, ma non “sotto” l’AI, significa mantenere gli strumenti algoritmici al servizio dell’idea progettuale (e non viceversa), permettendo di esplorare nuove possibilità poiché anche le opere di design e di architettura, come quelle d’arte, sono dei “significati”, ovvero non sono “chiuse” ma “coerenti” e per questo anche porose, capaci di integrare dati e contenuti prelevati dall’esterno e su di esso influenti.
Abbracciare le istanze del “non-design”. Uno dei rischi individuati in precedenza è la tendenza omogeneizzante dell’AI ma anche l’ipocrisia degli investimenti in intelligenza collettiva. La co-progettazione - ovvero il rinunciare a una visione autoriale in nome dell’inclusività dei contributi di progetto, rischia di produrre esiti caotici se priva degli adeguati mindset. Il confine tra - per esempio - una Biennale e una sequenza di allestimenti è molto molto labile. Un guida affidata a una libera curatorialità su parole chiave è collaudata, ma quanta innovazione produce - o almeno inaugura - se non proprio accompagna? Teatralità bio-tecnologiche o altri formati narrativi non sono di per sé una garanzia. Veramente non vi è null’altro? Veramente non si può sperimentare altro? Non vi sono teatro, cinema, musica, ricerca e discorso pubblico capaci di suggerire altro? Nulla che sia “cutting edge”? Nessuna “innovazione radicale” per una richiesta di innovazione, pur iscritta nelle epigrafi delle grandi manifestazioni internazionali? Utile sarebbe, per esempio, introdurre prospettive eterogenee per preservare l’elemento di unicità che ciascuna può portare, dando voce anche a visioni - perché no - discordanti.
Mantenere viva la dimensione metaforica e narrativa del progetto. Progettare, soprattutto quando si tratta di spazi di vita quotidiana come la casa, significa anche raccontare una storia, creare identità, rispecchiare valori culturali. La casa non è solo un “riparo” fisico: è un microcosmo di significati. Anche nell’era delle abitazioni domotiche e delle realtà virtuali immersive, la dimensione narrativa resta cruciale. Si deve continuare a pensare progettualmente per metafore: la casa come nido, la casa come teatro della memoria, la casa come macchina per abitare, sono tutte immagini-guida che in epoche diverse hanno orientato l’architettura. Queste visioni metaforiche danno coerenza e poesia alle scelte progettuali. Un’AI, per quanto avanzata, non “sogna” metafore nuove ma ripropone quelle già contenute nei dati di addestramento. Sta a architetto e designer introdurre metafore inedite nel discorso progettuale, associazioni inaspettate, riferimenti tratti dall’arte, dalla letteratura, dalla natura, storia, per reinventare continuamente l’idea stessa di casa. Solo così le nuove tecnologie rimarranno strumenti e non diverranno gabbie concettuali. In altre parole, il progettista deve coltivare il pensiero laterale e analogico, quel pensiero per immagini di cui diceva peraltro già Aristotele.
Conclusioni
Qui in conclusione vorrei distinguere in ciò che ho scritto due profili - certo incompletissimi - di una part construens da una part destruens, critica. Per la prima sono decisivi gli scritti di George Steiner, Jurij M. Lotman, Richard Neutra, ma di recentissimo anche Giovanni Masiero e Silvano Tagliagambe. Sono tutti costruttori di una idea di progetto coincidente con lo sviluppo di una materialità che rende le cose perfette attraverso l’imperfezione, nella scia delle convinzioni di Lotman, che considerava la comunicazione come di natura traduttiva: la trasmissione di un contenuto da un soggetto A ad un soggetto B non è mai un passaggio di informazioni inerti o intere, non è mai “smooth”. Design e Architettura non operano nel vuoto ma nella materialità di tempo e spazio (Richard Neutra). In questo senso la progettazione non è non è né ricetta come sostenuto da Carlo Ratti, né semplice interfaccia come invece propugnato da Luciano Floridi.
In breve: qualunque scambio sconterà sempre una piccola percentuale di eterogeneità tra le parti che si collegano ma sarà questa asimmetria, per quanto possa essere pur minima, a produrre nuova informazione.
Questa è la vera e unica chance per una progettazione che renda conto di “una casa da amare”.
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